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Capitolo 6

La scelta di svolgere un primo volontariato educativo è stata particolarmente azzeccata. I

bambini hanno un pregio molto particolare, che manca all’uomo adulto: la sinceritá.


Loro sembrano svincolati dalla critica sociale, ancora lontani dall’ipocrisia degli adulti nel

mascherare le proprie opinioni. Non hanno ancora sviluppato quella maschera che,

inevitabilmente e con il tempo, diventa parte di noi. Esprimono pertanto la loro opinione

senza vincoli ambientali e senza cadere nel tranello del giudizio. Non è un caso, infatti, che

questa capacità sia concessa ai bambini ed agli anziani, entrambi soggetti tendenzialmente

estranei alla vita sociale e perciò immuni dalla complessità delle parole e dei pensieri

eccessivi. Chi invece vive in società, difficilmente riesce a cogliere la soggettività di un

parere, finendo per considerarlo in qualsivoglia modo una critica, derivante dalle insicurezze

che la vita sociale stessa impone. Dalla soggettività deriva anche la possibilità di cambiare

opinione ed i bambini non hanno il timore che il loro punto di vista venga travisato in un

giudizio.


Ho particolarmente apprezzato pertanto la loro schiettezza, il fatto che non avessero

problemi nell’ammettere antipatia o simpatia nei confronti di qualcuno, il coraggio del sapere

di non poter piacere a tutti e viceversa.



In più, in questa prima esperienza di volontariato, ho particolarmente apprezzato Mirko. Lui

ha questa coinvolgente capacità innata di relazionarsi con i ragazzi: forse perché non è mai

veramente cresciuto, forse proprio per il potere della macchina fotografica, ormai protesi

delle sue braccia, strumento in grado di fermare il tempo e mantenere in noi vivo il ricordo di

un giorno, un sorriso, una persona amata. La fotocamera imprigiona i momenti della vita di

chi è di fronte all'obiettivo ma qual è la sorte di chi ne sta dietro? Anch'egli è vittima della

stessa meravigliosa maledizione.

Il fotografo si ferma, come la pellicola, all'istante in cui la foto viene scattata adattandosi alla persona che la richiede: affinché una foto ritragga il

miglior sorriso, deve essere richiesta nel modo corretto. Bisogna sapersi adattare alla

situazione e vestire i panni di chi si ha di fronte. È una capacità innata, che non tutti

possiedono. È la manifestazione per eccellenza dell’empatia e del rispetto.

Che risultati si potrebbero ottenere chiedendo una foto ad un'anziana signora seduta su una

panchina e farle una linguaccia prima di scattare oppure rincorrendo un uccello raro invece

che nascondersi nelle frasche ed aspettarne pazientemente il passaggio? Nella maggior

parte dei casi, il risultato probabilmente sarebbe deludente. Saper mettere a proprio agio

chiunque, in qualsiasi situazione, è una prerogativa del fotografo.



I ragazzi, purtroppo, parlavano un inglese veramente limitato e la macchina fotografica

fungeva da punto d’incontro tra noi e loro, una fonte di interesse che li incuriosiva e spingeva

a sforzarsi nel comunicare. La maggior parte delle volte, però, occorreva il traduttore digitale

per comunicare con loro. Contrariamente alla vicina Thailandia, in Vietnam, Laos e

Cambogia è raro trovare persone comuni che parlino inglese. Le cause sono varie, prima su

tutte l’avversione sociale delle precedenti generazioni per via delle guerre. Inoltre, le lingue

austroasiatiche si fondano su estensioni sonore, toni con cui cambiare il significato di una

parola. Perciò tali lingue sono fondate sull'utilizzo della gola come strumento comunicativo.

Al variare dell’intensità sonora, varia il significato della parola stessa. È per questo che alle

delicate orecchie di un latino le persone asiatiche spesso utilizzano suoni incomprensibili e

tonalità troppo alte. Le lingue indoeuropee si fondano invece su vocabolari ricchissimi e

sonorità più contenute derivanti da un grande utilizzo della bocca come strumento di

comunicazione. Questo crea grandi difficoltà ai giovani, incapaci di esprimersi e di studiare

così tanti vocaboli diversi per esprimere un solo concetto, pur essendo molto affascinati dal

mondo occidentale. Al di fuori delle zone turistiche è molto difficile trovare costanza nella

pratica della lingua.



I centri come quello a cui ci siamo affidati noi solitamente accolgono volontari proprio per

dare una costanza nella pratica della lingua, in quanto spesso anche gli stessi gestori

faticano a parlare fluentemente inglese.

Hong Ngu è prosaica e piatta. Come in molte cittadine vietnamite, le giornate sono lente e

ripetitive. Si vive una vita monotona sei giorni su sette e la domenica è quel fugace momento

di evasione dal prolisso lavoro, per trascorrere del tempo in famiglia. Il popolo vietnamita è

molto avvezzo al karaoke e la domenica è consuetudine vederli cantare a squarciagola in

mezzo alla strada con piccoli stereo che sprigionano melodica musica orientale, bevendo

birra ed “acqua felice”, un distillato grezzo autoprodotto e solitamente derivante dal riso.

Ad Hong Ngu non succede mai niente e quando qualcosa accade è sulla bocca di tutti. Mi

ha ricordato molto quei piccoli borghi sparsi per l’Italia, in cui ancora oggi le signore anziane

sbirciano dalla finestra per vedere cosa accade in strada. D’altronde tutto il mondo è paese

ed il pettegolezzo è alla base delle relazioni sociali.


Le nostre giornate erano semplici e ridondanti e, allo stesso tempo, molto appaganti. Sveglia

alle 7.30, colazione a base di Ban Mih, un panino tipico vietnamita. Si tratta di una semplice

baguette con all’interno verdura cruda, uova o maiale marinato e tanto, troppo, esagerato

coriandolo. Ogni mattina ci ritrovavamo a spulciare dal nostro panino i gambi e le foglie di

quella spezia così saporita ma anche così mal dosata. Il tutto veniva servito con un classico

caffè vietnamita, rigorosamente accompagnato da un bicchiere oversize pieno, ahimè, di

ghiaccio! Un fendente al cuore per due italiani. Ma ormai ci avevamo fatto l’abitudine, come

con lo zucchero. I vietnamiti amano il gusto dolce e tendono ad esagerarlo, addirittura è

tradizione addolcire il chicco di caffè durante la tostatura con burro e zucchero.



Il caffè, nella società vietnamita, ha un grandissimo valore. Le sue piantagioni sono sparse

ovunque nel Paese e l’altopiano di Buon Ma Tout è famoso per la qualità dei suoi chicchi.

Non a caso, il Vietnam ne è il secondo produttore mondiale, dopo il Brasile. La sua

preparazione, nei piccoli rivenditori lungo la strada, nonché autoproduttori del caffè che

vendono, ha una ritualitá simile a quella di noi italiani con la moka: essi possiedono un

particolare filtro d'acciaio, detto filtro “Phin”, in cui inseriscono il macinato e successivamente

ne versano sopra l’acqua bollente che lentamente, goccia dopo goccia, cade nella tazzina. I

clienti devono aspettare pazientemente il filtraggio, ogni tentativo di velocizzarne il

procedimento lo rovinerebbe. I cosiddetti “Coffee Shop”, ben diversi da quelli della vicina

Thailandia, fungono anche da centri di aggregazione sociale, soprattutto giovanile. Gli

adolescenti amano passare le loro serate a scherzare o fare i compiti con gli amici nel locale

preferito, bevendo caffè o i soliti the con bolle di gelatina all’interno.


Il volontariato consisteva nello stare dalle otto di mattina alle otto di sera con i ragazzi di età

compresa tra i tre ed i venticinque anni, in un piccolo centro di formazione per

l’apprendimento della lingua inglese. Era una vecchia struttura affacciata su una strada

costellata di bandiere comuniste e vietnamiti alternate ad ogni lampione con cura maniacale.

Al piano terra vi era una grande aula dove si svolgevano le lezioni, le scale, un bagno e la

camera da letto del proprietario, Mr.T.





Nel piano superiore invece le desuete aule, con tanto di campanelle nel corridoio. Vista

l’affluenza di volontari e le poche finanze per il centro, queste venivano adibite a stanze per

gli ospiti.

Erano tutte abbandonate a loro stesse, con polvere ed escrementi di ratto, dormitori per

ragni e blatte. L'odore della muffa era assuefante e l'unica finestra apribile era rotta e dallo

scorrimento limitato. La tenda, che doveva teoricamente ripararci dal sole mattutino, era un

semplice telo da spiaggia raffigurante gli eroi di Star Wars, il nostro letto un sottilissimo

materasso appoggiato al suolo ed al muro, dal quale potevamo sentire lo squittio dei topi alle

nostre spalle.

Il luogo perfetto per noi, non vi era nemmeno acqua calda. Stavamo ricercando noi stessi e metterci in difficoltà era necessario. Volevamo imparare da queste culture l’arte dell’arrangio, la gioia nella semplicità. Ricordo solo tanti sorrisi smaglianti in quell’improvvisato accampamento e nella condivisione del tempo con gli alunni. Non avremmo potuto terminare meglio la nostra esperienza in Vietnam, toccando con mano le

abitudini quotidiane di queste persone.

Abbiamo trascorso cinquanta meravigliosi giorni in questo straordinario Paese ed è qui che abbiamo stravolto la nostra vita. Un grazie non sarà mai sufficiente.

Il Vietnam sarà sempre casa per noi.




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