La scelta di svolgere un primo volontariato educativo è stata particolarmente azzeccata. I
bambini hanno un pregio molto particolare, che manca all’uomo adulto: la sinceritá.
Loro sembrano svincolati dalla critica sociale, ancora lontani dall’ipocrisia degli adulti nel
mascherare le proprie opinioni. Non hanno ancora sviluppato quella maschera che,
inevitabilmente e con il tempo, diventa parte di noi. Esprimono pertanto la loro opinione
senza vincoli ambientali e senza cadere nel tranello del giudizio. Non è un caso, infatti, che
questa capacità sia concessa ai bambini ed agli anziani, entrambi soggetti tendenzialmente
estranei alla vita sociale e perciò immuni dalla complessità delle parole e dei pensieri
eccessivi. Chi invece vive in società, difficilmente riesce a cogliere la soggettività di un
parere, finendo per considerarlo in qualsivoglia modo una critica, derivante dalle insicurezze
che la vita sociale stessa impone. Dalla soggettività deriva anche la possibilità di cambiare
opinione ed i bambini non hanno il timore che il loro punto di vista venga travisato in un
giudizio.
Ho particolarmente apprezzato pertanto la loro schiettezza, il fatto che non avessero
problemi nell’ammettere antipatia o simpatia nei confronti di qualcuno, il coraggio del sapere
di non poter piacere a tutti e viceversa.
In più, in questa prima esperienza di volontariato, ho particolarmente apprezzato Mirko. Lui
ha questa coinvolgente capacità innata di relazionarsi con i ragazzi: forse perché non è mai
veramente cresciuto, forse proprio per il potere della macchina fotografica, ormai protesi
delle sue braccia, strumento in grado di fermare il tempo e mantenere in noi vivo il ricordo di
un giorno, un sorriso, una persona amata. La fotocamera imprigiona i momenti della vita di
chi è di fronte all'obiettivo ma qual è la sorte di chi ne sta dietro? Anch'egli è vittima della
stessa meravigliosa maledizione.
Il fotografo si ferma, come la pellicola, all'istante in cui la foto viene scattata adattandosi alla persona che la richiede: affinché una foto ritragga il
miglior sorriso, deve essere richiesta nel modo corretto. Bisogna sapersi adattare alla
situazione e vestire i panni di chi si ha di fronte. È una capacità innata, che non tutti
possiedono. È la manifestazione per eccellenza dell’empatia e del rispetto.
Che risultati si potrebbero ottenere chiedendo una foto ad un'anziana signora seduta su una
panchina e farle una linguaccia prima di scattare oppure rincorrendo un uccello raro invece
che nascondersi nelle frasche ed aspettarne pazientemente il passaggio? Nella maggior
parte dei casi, il risultato probabilmente sarebbe deludente. Saper mettere a proprio agio
chiunque, in qualsiasi situazione, è una prerogativa del fotografo.
I ragazzi, purtroppo, parlavano un inglese veramente limitato e la macchina fotografica
fungeva da punto d’incontro tra noi e loro, una fonte di interesse che li incuriosiva e spingeva
a sforzarsi nel comunicare. La maggior parte delle volte, però, occorreva il traduttore digitale
per comunicare con loro. Contrariamente alla vicina Thailandia, in Vietnam, Laos e
Cambogia è raro trovare persone comuni che parlino inglese. Le cause sono varie, prima su
tutte l’avversione sociale delle precedenti generazioni per via delle guerre. Inoltre, le lingue
austroasiatiche si fondano su estensioni sonore, toni con cui cambiare il significato di una
parola. Perciò tali lingue sono fondate sull'utilizzo della gola come strumento comunicativo.
Al variare dell’intensità sonora, varia il significato della parola stessa. È per questo che alle
delicate orecchie di un latino le persone asiatiche spesso utilizzano suoni incomprensibili e
tonalità troppo alte. Le lingue indoeuropee si fondano invece su vocabolari ricchissimi e
sonorità più contenute derivanti da un grande utilizzo della bocca come strumento di
comunicazione. Questo crea grandi difficoltà ai giovani, incapaci di esprimersi e di studiare
così tanti vocaboli diversi per esprimere un solo concetto, pur essendo molto affascinati dal
mondo occidentale. Al di fuori delle zone turistiche è molto difficile trovare costanza nella
pratica della lingua.
I centri come quello a cui ci siamo affidati noi solitamente accolgono volontari proprio per
dare una costanza nella pratica della lingua, in quanto spesso anche gli stessi gestori
faticano a parlare fluentemente inglese.
Hong Ngu è prosaica e piatta. Come in molte cittadine vietnamite, le giornate sono lente e
ripetitive. Si vive una vita monotona sei giorni su sette e la domenica è quel fugace momento
di evasione dal prolisso lavoro, per trascorrere del tempo in famiglia. Il popolo vietnamita è
molto avvezzo al karaoke e la domenica è consuetudine vederli cantare a squarciagola in
mezzo alla strada con piccoli stereo che sprigionano melodica musica orientale, bevendo
birra ed “acqua felice”, un distillato grezzo autoprodotto e solitamente derivante dal riso.
Ad Hong Ngu non succede mai niente e quando qualcosa accade è sulla bocca di tutti. Mi
ha ricordato molto quei piccoli borghi sparsi per l’Italia, in cui ancora oggi le signore anziane
sbirciano dalla finestra per vedere cosa accade in strada. D’altronde tutto il mondo è paese
ed il pettegolezzo è alla base delle relazioni sociali.
Le nostre giornate erano semplici e ridondanti e, allo stesso tempo, molto appaganti. Sveglia
alle 7.30, colazione a base di Ban Mih, un panino tipico vietnamita. Si tratta di una semplice
baguette con all’interno verdura cruda, uova o maiale marinato e tanto, troppo, esagerato
coriandolo. Ogni mattina ci ritrovavamo a spulciare dal nostro panino i gambi e le foglie di
quella spezia così saporita ma anche così mal dosata. Il tutto veniva servito con un classico
caffè vietnamita, rigorosamente accompagnato da un bicchiere oversize pieno, ahimè, di
ghiaccio! Un fendente al cuore per due italiani. Ma ormai ci avevamo fatto l’abitudine, come
con lo zucchero. I vietnamiti amano il gusto dolce e tendono ad esagerarlo, addirittura è
tradizione addolcire il chicco di caffè durante la tostatura con burro e zucchero.
Il caffè, nella società vietnamita, ha un grandissimo valore. Le sue piantagioni sono sparse
ovunque nel Paese e l’altopiano di Buon Ma Tout è famoso per la qualità dei suoi chicchi.
Non a caso, il Vietnam ne è il secondo produttore mondiale, dopo il Brasile. La sua
preparazione, nei piccoli rivenditori lungo la strada, nonché autoproduttori del caffè che
vendono, ha una ritualitá simile a quella di noi italiani con la moka: essi possiedono un
particolare filtro d'acciaio, detto filtro “Phin”, in cui inseriscono il macinato e successivamente
ne versano sopra l’acqua bollente che lentamente, goccia dopo goccia, cade nella tazzina. I
clienti devono aspettare pazientemente il filtraggio, ogni tentativo di velocizzarne il
procedimento lo rovinerebbe. I cosiddetti “Coffee Shop”, ben diversi da quelli della vicina
Thailandia, fungono anche da centri di aggregazione sociale, soprattutto giovanile. Gli
adolescenti amano passare le loro serate a scherzare o fare i compiti con gli amici nel locale
preferito, bevendo caffè o i soliti the con bolle di gelatina all’interno.
Il volontariato consisteva nello stare dalle otto di mattina alle otto di sera con i ragazzi di età
compresa tra i tre ed i venticinque anni, in un piccolo centro di formazione per
l’apprendimento della lingua inglese. Era una vecchia struttura affacciata su una strada
costellata di bandiere comuniste e vietnamiti alternate ad ogni lampione con cura maniacale.
Al piano terra vi era una grande aula dove si svolgevano le lezioni, le scale, un bagno e la
camera da letto del proprietario, Mr.T.
Nel piano superiore invece le desuete aule, con tanto di campanelle nel corridoio. Vista
l’affluenza di volontari e le poche finanze per il centro, queste venivano adibite a stanze per
gli ospiti.
Erano tutte abbandonate a loro stesse, con polvere ed escrementi di ratto, dormitori per
ragni e blatte. L'odore della muffa era assuefante e l'unica finestra apribile era rotta e dallo
scorrimento limitato. La tenda, che doveva teoricamente ripararci dal sole mattutino, era un
semplice telo da spiaggia raffigurante gli eroi di Star Wars, il nostro letto un sottilissimo
materasso appoggiato al suolo ed al muro, dal quale potevamo sentire lo squittio dei topi alle
nostre spalle.
Il luogo perfetto per noi, non vi era nemmeno acqua calda. Stavamo ricercando noi stessi e metterci in difficoltà era necessario. Volevamo imparare da queste culture l’arte dell’arrangio, la gioia nella semplicità. Ricordo solo tanti sorrisi smaglianti in quell’improvvisato accampamento e nella condivisione del tempo con gli alunni. Non avremmo potuto terminare meglio la nostra esperienza in Vietnam, toccando con mano le
abitudini quotidiane di queste persone.
Abbiamo trascorso cinquanta meravigliosi giorni in questo straordinario Paese ed è qui che abbiamo stravolto la nostra vita. Un grazie non sarà mai sufficiente.
Il Vietnam sarà sempre casa per noi.
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