A Ninh Bình abbiamo aggiunto forza mentale al nostro backpack, già pesante di vestiti. Ma al contrario
dei nostri abiti, questa alleggeriva il nostro tragitto rendendolo sempre più semplice.
Ci demmo come obiettivo Hội An, da raggiungere entro il sedici di settembre, per la festa delle lanterne
e dei dragoni che, ogni mese, celebra il giorno di Luna Piena. Lì avremmo speso qualche giorno in
compagnia di alcuni amici italiani, che ci attendevano sul luogo: Jodie e Lele, accompagnati dai genitori
di quest’ultimo, Lalla ed Holly.
Avevamo un paio di giorni per percorrere i settecento kilometri che dividono Ninh Bình da Hội An, perciò
il quattordici risalimmo in sella alle nostre moto alla volta di Vinh, capoluogo della provincia di Nghệ An.
La zona è nota per aver dato alla luce alcuni tra più importanti ed influenti personaggi nella storia del
Vietnam, tra cui il celeberrimo Ho Chi Minh. La città ribolle dello stesso animo rivoluzionario e si è
contraddistinta per coraggio e patriottismo durante le spedizioni belliche contro gli occidentali: era un
importante sito di scontri, difatti ad oggi non si trova quasi più nulla dell’antica Vinh. Tutto, con le
guerre, è andato distrutto.
Vinh ha, inoltre, una zona portuale molto affascinante: Cửa Lò.
Il nome ci intrigava e l’idea di fare un po’ di mare dopo i primi giorni molto piovosi alliettava sia me che il
mio compagno di viaggio. Fu però un episodio che convinse entrambi della meta: un altro di quei Segnali
che l’Universo continuava a recapitarci.
All’altezza di Quảng Lợi, ci fermammo per una pausa sigaretta ed una bevanda energetica rinfrescante, unici rimedi all’infernale QL1A. L’asfalto era cocente, la moltitudine di camion e tir sollevavano polvere e ciottoli che, congiuntamente ai tetti in lamine a schiera delle case a bordo della strada, ci impedivano la visuale su uno dei luoghi più ricchi di flora e fauna che questa Terra possa offrirci: la Catena Annamita.
Accostammo sulla destra, in una delle tante casette vietnamite che, affacciate su una strada molto trafficata, diventano all’occorrenza negozi di bevande e snack, accogliendo così i molti viaggiatori affamati ed assetati. Il Destino ci portò a scegliere la casa di una signora sulla settantina, le mani tremolanti, i capelli bianchi, gli occhi chiusi dalle rughe dell’età e dai tratti somatici inconfondibili di quelle popolazioni. Non parlava una parola di inglese ma, dopo averle acquistato a gesti due Red Bull, si sedette al tavolino esterno con noi, come ad apprezzare la nostra compagnia. Aveva un sorriso genuino, riflesso di quella che era la semplicità di casa sua: un’amaca per riposare, una modesta televisione, qualche brocca d’acqua ed una vecchia foto appesa al muro ritraente lei con figli e marito, di almeno trent’anni prima. A giudicare dallo sfondo bianco, era una di quelle foto scattate durante una giornata speciale ormai passate di moda per via dei telefoni e la loro velocità di
scatto, in cui ci si agghindava per andare dal fotografo ed immortalare la propria famiglia. La modestia di
quella casa ed il volto di quella Bà mi riportarono alla mente le tante domande che da ragazzo mi
ponevo, tra cui quale fosse il vero significato della felicità. Mi resi conto che quelle domande che
consideravo giovanili, non avevano ottenuto una risposta. Mi ero semplicemente abituato a non
pensarci più.
Eravamo così incuriositi da quel volto sereno che provammo a comunicare utilizzando il traduttore del
nostro telefono e le facemmo qualche domanda di prassi, come ‘’Qual è il suo nome?’’. Il suo sorriso
rimase immutato e sollevò gli occhi dal telefono, puntandoli su di noi. Ci volle poco per capire che fosse
analfabeta e non vi fosse mezzo di comunicazione se non verbale. Spuntò, allora, dalla bocca di Mirko
una domanda semplice e diretta: ‘’Vinh o Cửa Lò?’’. La signora, dopo una piccola pausa di riflessione,
rispose decisa ‘‘Cửa Lò!’’.
Al momento del nostro arrivo, quella splendida e meravigliosa località balneare era completamente
deserta. Situata sul mare e di fronte all’isola di Hainan, in Cina, fu tra le prime vittime del Tifone Yagi.
Sembrava fossimo entrati in una città fantasma, resa ancora più inquietante dalla distruzione attorno a
noi. Scarpe, bambole, ciabatte, pannelli in plastica, corde, reti, alghe, rami e pezzi sparsi di strutture
balneari costellavano la spiaggia, come stelle cadenti a San Lorenzo. L’acqua era torbida, inquieta e
burrascosa, ancora scioccata dai duecento ed oltre kilometri orari di vento che avevano stravolto quel
luogo pochi giorni prima.
Camminammo su quella distesa di detriti e desolazione per circa quattro kilometri, poi.. alla nostra
destra comparve una maestosa struttura prefabbricata, una ‘’DisneyLand’’ in cartongesso. Il cartello
all’ingesso recitava ‘’Vinwonder Park’’, ma il suo aspetto lasciava presagire più il luogo di una catastrofe
che un parco acquatico. Il silenzio veniva spezzato solo dalle musiche, inquietanti e melodiche, delle
giostre infantili. ‘’ Sembra Silent Hill’’, disse Mirko. Risposi annuendo, ma la mia attenzione cadde sugli
occhi increduli dei venditori locali che a poco a poco prendevano coraggio ed iniziavano ad uscire dai
loro negozi e ristoranti, affascinati da quei due turisti inaspettati.
Le persone erano così felici nel vederci, commercianti e ristoratori ci invitavano nei loro locali, ricambiando i nostri saluti attraverso meravigliosi sorrisi pudici ed imbarazzati, propri di varie popolazioni asiatiche. Tutti i commessi del parco ci sorridevano ed osservavano attenti le nostre mosse e qualcuno goliardicamente venne a chiederci se volessimo entrare nel parco. Guardai Mirko e ci capimmo subito. Non dovette ripetercelo due volte, capì dal nostro sorriso che volevamo gettarci di corsa in acqua. D’altronde stavamo cercando il mare per scappare dal caldo torrido di quei giorni di settembre, e un paco acquatico poteva andare bene comunque.
Dopo qualche ora passata a goderci in solitaria gli scivoli di quel suggestivo parco, uscimmo alla ricerca
di cibo. Eravamo anche incuriositi da un’immensa funicolare che collega Cửa Lò con un’isola vicina, Hòn Ngư.
Decidemmo di salire sulla funicolare per sbirciare quella misteriosa isoletta, ancora parte del parco
acquatico, e scoprire che altre attrazioni questa potesse offrire. Ma, come al solito, il Destino si
manifesta in strane maniere e nei momenti più inaspettati.
Salendo sulla struttura, facevamo considerazioni su quanto fosse un peccato che, tale zona, fosse
diventata un covo per turisti. La cultura locale, ai nostri occhi, aveva traslocato in virtù dei nuovi trend
della globalizzazione. Si cercava di rendere tutto meno vietnamita e più occidentale.
Effettivamente l’isola, così minuta e semplice, rispecchiava le nostre aspettative: negozi che vendevano
vestiti recanti famosi brand internazionali, bar, punti panoramici, ristoranti ed il progetto di creare un
rollercoaster. Non esattamente l’avventura che stavamo cercando.
Notammo un folto mandorleto che nascondeva una struttura laterale rispetto al parco e dall’apparenza
antica, come venisse dal tempo passato: il gioco di luci ed ombre ci invitava a sé, i raggi che passavano
tra le foglie venivano riflessi come fossero oro dal legno di teak di cui erano fatte le pareti, ormai
schiarite a seguito del logorio dal sole. Avvicinandoci notammo un’effigie recintante la storia del luogo,
scritta con immagini ed ideogrammi. Con l’ausilio del traduttore riuscimmo a scoprire il nome, ‘Pagoda
Bai’, ed il secolo, XIII. Eravamo esterrefatti dalla datazione e con il cuore in gola salimmo i tre gradini che
separano la flora dal tempio. Lì, iniziammo a vedere i meravigliosi corrimani incisi con animali sacri del
Buddismo. Dragoni, fenici e tartarughe e non solo: un grosso gong in bronzo antico con il suo percussore
in stoffa accoglieva il nostro arrivo. Alla sinistra dell’ingresso si poteva scorgere una struttura in legno,
un ombrato portico sotto il quale ristorare. Alla sua destra, invece, un corridoio che portava ad un
piccolo spiazzo, collegato ad un ingresso secondario nel cuore del tempio.
Potevamo percepire l’aura ricca del luogo, l’aria e l’atmosfera erano diverse. Tale sensazione si insidiò
fissa nei nostri pensieri, come il tintinnio della goccia nel lavandino.
Alla destra del tempio, notammo un monaco passare la scopa. Fu per noi una sorpresa, in quanto in
Vietnam, contrariamente a tanti altri stati asiatici, la fede è poco praticata e, quei pochi praticanti, non
hanno coesione di religioni. Lo Stato offre grande libertà e non impone culti, anche se è un paese di
grande tradizione buddista. Anche il cattolicesimo è molto professato, in seguito alla precedente
dominazione francese. Condividono tutti, però, un culto molto forte nei confronti dei loro avi: venerano
e ringraziano uomini e donne che furono e preferiscono perciò abbellire cimiteri piuttosto che gli antichi
templi. Specialmente nelle città, essi sono luoghi turistici e vedere monaci al loro interno è veramente
insolito.
Noi eravamo incuriositi ed ammaliati dalla gestualità di quel giovane, all’incirca di vent’anni, che
muoveva sinuosamente quella scopa, come se fosse il corpo intero e non solo le braccia a darne
direzione. I suoi occhi non si alzarono dal terreno ma percepimmo come ci stesse guardando. La sua
forza spirituale ci fece sentire due Gulliver tra i Brobdingnag.
Il primo passo all’interno della pagoda, difatti, fu molto titubante: lo scricchiolio del legno sotto alle
calze amplificò ancor di più la nostra soggezione. Appena entrati, ci rendemmo conto della meraviglia di
quel santuario e della sua età: il teak interno della tettoia, scuro ed umido, era ormai marcio, prigione
per il calore e dolce culla per gli insetti e le muffe. Un santuario dorato del Buddha dominava la sala
principale che si apriva ai lati in due piccole arcate.
Ci sedemmo comunque a meditare, affrontando il caldo asfissiante e l’assidua sensazione di essere
circondati. Chiusi gli occhi, feci un respiro profondo e coordinai i miei respiri al rumore della scopa alle
mie spalle. Quel suono così calmo e perfettamente intervallato accompagnò i miei pensieri più reconditi.
Quando mi svegliai e riaprii gli occhi era per me passato solo un attimo, ma il tempo esterno non era
dello stesso parere. Mi sentivo libero, svuotato, una persona nuova. Percepivo anche in Mirko qualcosa
di diverso, come più forte.
Non parlammo per qualche attimo, ringraziammo l’anima di quel luogo ed uscimmo chiacchierando
della meravigliosa meditazione che avevamo condiviso, accompagnati dal solitario fruscio della scopa. Il
sole all’uscita illuminò il mio volto, con la mano dovetti schermarmi per vedere e casualmente incrociai
gli occhi del monaco: non aveva più la scopa in mano e con sguardo disteso mi chiamò a sé, indicando
con gentilezza Mirko e facendo con le dita il segno del due, come a dirmi di seguirlo assieme. Si sedette
sotto al piccolo portico, attendendoci. Il nostro cuore scalpitava e le ginocchia tremavano nello scendere
gli scalini. Sapevamo che stava per succedere qualcosa e le nostre menti vagavano nelle migliaia di
domande che avremmo voluto porgli: domande di vita, di felicità, di perdono, di fede e di speranza, un turbinio di quesiti che, però, scomparve appena ci sedemmo di fronte a lui.
Prima ancora che potessimo chiedere qualcosa estrasse delle palline di legno, due fili di seta e un po’ di
rame. Per trenta minuti compose due Mala tibetani, dei semplici rosari appartenenti a queste tradizioni
e molto utili nella meditazione. Quella strana sensazione di essere circondati si tramutò in un abbraccio,
come se quel luogo ci stesse coccolando ed il silenzio, in quei trenta minuti, fu l’unico interlocutore del
vento tra le foglie. I nostri pensieri volarono via nella freschezza dell’aria sotto a quell’ombrato portico
ed eravamo immensamente grati e felici di quel piccolo grande gesto, una breccia nella nostra
monotona apatia. Ci congedammo con un timido saluto imbarazzato dalla potenza di un cuore così
libero, coadiuvato da un timore reverenziale non indifferente.
Mi sono da allora domandato se il monaco avesse percepito qualcosa in noi e cosa lo spinse a compiere quel semplice e suppongo quotidiano gesto. Poco importa, perché quel piccolo regalo mi ha cambiato la vita.
Ancor prima che il monaco andasse via, io e Mirko eravamo in un fiume di lacrime. Ci abbracciammo e
passammo le ultime ore a guardare il tramonto. Ripensai a tutta la giornata trascorsa, alla Bà, ai miei pensieri, al parco acquatico ed a quella strana isola, che con poco preavviso ci aveva appena consegnato la chiave di lettura per la felicità: la semplicità. Mi piace pensare che essa sia come quella antica pagoda, nascosta ma visibile dagli occhi di chi la sta veramente cercando.
Lì, nelle lacrime di gioia, abbiamo speso le prime parole sul viaggiare non solo in Vietnam ma in tutto il
Sud Est asiatico.
Lì abbiamo deciso di ascoltare i Segnali e seguire il Destino.
E poi, da lì in poi..
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