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Capitolo 3 - La danza della vita

La nottata trascorse veloce e ricca di caldi sogni. La nostra sveglia, puntuale alle 4.30, ci fece tornare alla bagnata realtà: la strada era lunga e noi devastati. Dopo una colazione a base di MM’s, cioccolato e l’immancabile thè, calzammo i nostri fradici anfibi e ci trascinammo giù dalle scale del Golden Hotel con i nostri pesanti backpack. Le nostre scarpe erano talmente bagnate che lasciavamo l’impronta ad ogni passo; i nostri vestiti odoravano come il pelo di un cane durante un temporale; le nostre schiene erano doloranti e contratte; i nostri occhi, ancora chiusi dal sonno, facevano trasparire la nostra stanchezza. Ma né io né Mirko, quella mattina riuscivamo a smettere di sorridere. Eravamo affaticati, però vogliosi di scoprire di più su quelle meravigliose persone e su quei panorami incredibili.


Ripercorremmo al contrario la CT02, strada tortuosa e ricca di curve, che ci aveva portato in quota. Erano le 5 di mattina e le nostre moto bucavano come fori di pallottola la coltre di nubi che aleggiava a ridosso delle montagne e che a tratti ci nascondeva il panorama mozzafiato. Ci sentivamo pronti a spaccare il mondo e questa volta le mie mani non tremarono di fronte alla prima dogana tra la provincia di Son La e quella di Hoa Binh.



Con una svolta a destra, all’altezza di Xom Chieng, imboccammo la QL12B, un’autostrada dritta che taglia a metà la regione cosiddetta Delta del fiume Rosso, una zona di circa quindicimila kilometri quadrati ma con una densità di popolazione pari a millecinquecento persone per kilometro quadrato. Per intenderci, la regione italiana con maggior densità di popolazione, la Lombardia, conta quattrocentoventi persone per kilometro quadrato, in ventiquattromila kilometri quadrati circa. Sono numeri esorbitanti e la principale fonte di reddito per quelle persone sono le colture di riso.


Il panorama era radicalmente cambiato davanti ai nostri occhi: dalla jungla colorata e ricca di vegetazione, eravamo tornati a paesaggi urbani ma molto diversi dalla periferia di Hanoi. Non più case a mo’di slum, bensì abitazioni più rupestri e contadine. Le industrie erano prevalentemente nel circondario cittadino della capitale, lì invece prevalevano distese di pianure sconfinate, in cui le mandrie potevano pascolare e le risaie si alternavano a piccoli e poveri villaggi con a contorno grandi montagne verdi. Vedendo quei luoghi mi sovvennero alla mente i panorami piemontesi nei pressi del Po, al cui sfondo vi sono le vette innevate delle Alpi. Il ricco sottosuolo di quelle zone rende possibile l’acquacoltura, perciò le frequenti piogge aiutano molto gli allevatori, i contadini e le loro produzioni, rendendo il Delta del fiume Rosso la seconda regione per produzione di riso in Vietnam. È anche una zona ricca di tradizione e in cui il tempo sembra essersi fermato. In questi luoghi sono nati i famosi spettacoli di Teatro con le marionette vietnamite, frutto e strascichi di quella influenza cinese ancora oggi molto forte in questo paese.



Le tempeste stagionali, però, come Yagi, portatrici di una distruzione temibile per le zone, compromettono spesso la serena vita di tali villaggi. Io e Mirko lo scoprimmo a nostre spese quando, all’altezza di Nho Quan, ci trovammo con le nostre moto a dover attraversare un’inondazione che portava l’acqua ad un livello tale da coprirci le ginocchia. Le dighe della zona, esasperate dall’ingente e perpetua pioggia, non tennero e finirono per inondare la città. Dopo essere passati su quella enorme quantità di acqua e detriti, ci guardammo e decidemmo di tornare indietro. La nostra complicità ci portò ad abbandonare le moto in mezzo alla strada, con gli zaini ancora montati e le chiavi al loro interno. Eravamo sicuri che nessuno avrebbe girato il quadrante e sarebbe scappato con i nostri averi. Dopo pochi giorni, ci fidavamo ciecamente di quelle persone.

Con l’acqua alle ginocchia, ci inoltrammo all’interno del Villaggio e per l’ennesima volta rimanemmo stupefatti da quel popolo così fisicamente minuto. Tutti stavano lavorando duramente per risollevare la situazione del povero villaggio, contagiati da un allegro anziano signore, probabilmente a capo di quella spedizione d’aiuto, che portava il sorriso sul volto di ognuno. Anche noi, influenzati da quella positività così inaspettata, sorridevamo e scherzavamo reciprocamente. Ci volle poco prima che iniziassimo a chiedere agli abitanti delle foto. Ancora una volta, le loro risposte positive ci lasciarono di stucco: non solo erano ben disposti alle fotografie ma ci chiedevano a gran voce di fotografare i familiari, gli amici ed i vicini di casa. Tutti erano felici e spensierati.


Tutti, tranne un bambino. Avrà avuto all’incirca otto anni e, contrariamente agli altri, era isolato, accosciato su una piccola canoa, utilizzando un remo per districarsi dagli arbusti che bloccavano l’ormai irriconoscibile strada. Aveva gli occhi affranti e si nascondeva dai nostri sorrisi e scatti. La scuola alle sue spalle era chiusa a causa del disastro naturale e lui completamente solo. La sua mimica corporea faceva presagire la tristezza nella sua anima. Svolgeva movimenti semplici che definirei giocosi, derivanti dall’età, ma che lasciavano trasparire una volontà recondita di ignorare la situazione circostante, come per isolarsi da un luogo, un tempo, un istante di cui era già consapevole non si sarebbe mai dimenticato.



Non scoprimmo mai cosa affliggesse quel bambino, la gravità della sua perdita, la sua espressione è un altro di quei famosi ‘’Click mentali’’ che mi attraversarono l’anima, facendomi provare un brivido di compassione. Mi sentii fortunato: ho avuto la possibilità di assistere alle devastazioni di tali calamità senza che avvenissero in casa mia o che ne subissi in qualsivoglia modo le conseguenze. Sono sicuro che anche Mirko abbia avuto la stessa sensazione, potevo percepirlo dal suo sguardo e dal silenzio calato tra noi. I nostri sorrisi si erano trasformati in espressioni cupe, empatiche nei confronti di quel piccolo fanciullo che zittiva la scena circostante. Seguivamo con gli occhi i suoi movimenti, ammaliati dalla brutalità dell’attimo: era la quiete nella tempesta, l’occhio del ciclone che si manifestava con la sua malefica illusione. Mentre gli adulti attorno a lui affrontavano consapevolmente le conseguenze delle atrocità naturali, il bambino sembrava essere stato trasportato per la prima volta in quel contesto, a tratti infimo, ed in esso aver perso l’innocenza degli anni migliori della sua vita. Anche noi, fino ad allora così spavaldi e sorridenti, contagiati dall’entusiasmo della popolazione circostante, ci rendemmo conto del sopraffino gioco di riflessi all’interno di quella tragedia. In quel momento eravamo inermi di fronte alla crudeltà dell’istante, prendendo realmente conoscenza della perfidia celata dietro al sorriso di chi ha la fortuna di raccontarlo.


Uscimmo da quel cataclisma con impresse nella memoria le immagini appena vissute. Lo sgomento era grande a tal punto che il ricordo degli attimi appena vissuti riaffiorava alla mia memoria ad ogni battito di ciglia. Mentalmente avevo ancora l’acqua alle ginocchia e lo sguardo docile di quel bambino, fattosi uomo troppo presto, davanti ai miei occhi. Dentro di me nacque dunque un moto irrazionale e spontaneo: scrivere. Era come una spinta interiore, un pensiero fisso che doveva essere soddisfatto, un desiderio intimo e perseverante che accolsi e soddisfai appena terminati i trenta kilometri mancanti a Ninh Binh, la nostra tappa. Scrissi solo qualche riga, una nota sul telefono che mi rimandasse mentalmente a quei pensieri. Quella nota, è ancora viva e salda all’interno del mio dispositivo, come ricordo del quando è iniziato tutto. Feci una doccia, che non riuscì però a pulirmi dal ricordo di quegli istanti, come se ormai fossero marchiati a fuoco nella mia anima.



Decidemmo di goderci quei giorni un po’ più da turisti, specialmente nella meravigliosa zona di Tam Coc, piccolo angolo di paradiso nascosto dalla città di Ninh Binh.


Ci godemmo qualche giorno in quel meraviglioso luogo, apprezzando l’unicità dei paesaggi vietnamiti. Eravamo circondati da risaie, laghi ed altopiani. In quel contesto bucolico, disseminato da fiori di loto, pianta tanto cara a questo paese e simbolo della sua purezza, per la prima volta in questo viaggio ci riavvicinammo alla nostra parte più recondita, quella spirituale.



A pochi kilometri di distanza da Ninh Binh, infatti, vi è la Chùa (pagoda) Bái Đính, il complesso di templi buddista più grande del sud est asiatico e dalla bellezza sconfinata: la sua torre, alta ventidue metri, svetta incontrastata sull’idilliaco paesaggio e sulle risaie. Percepii, sin dal tragitto, che l’Universo fosse in procinto di dirci qualcosa. Mentre ci avvicinavamo al luogo sacro, infatti, godemmo ancora una volta di uno spettacolo memorabile derivante dai bambini. A pochi minuti dalla nostra destinazione, una dozzina di ragazzi stava giocando in mezzo alla strada, noncuranti del traffico e del pericolo da esso derivante. Erano tutti scalzi ed a petto nudo che si rincorrevano e si schizzavano con l’acqua di una pozzanghera, ancora fresca a seguito della tempesta che proprio poco prima aveva attraversato la zona. Erano giovani, più o meno della stessa età del ragazzo da noi incontrato a Nho Quan. La gioia sui loro volti era irrefrenabile ed appena Mirko estrasse dallo zaino la sua strumentazione fotografica, fecero a gara per avere uno scatto.


Vedere quei ragazzi mi fece tornare bambino e ripensai alla differenza tra loro e quel ragazzo: non differivano di età, né di nazionalità, bensì d’esperienze. Avevano vissuto, con conseguenze differenti, la stessa tempesta. La malignità della vita stessa e la sua manifestazione casuale sublimavano i nostri animi, creando un turbinio di emozioni controverse e difficili da decifrare. Avevamo assistito a due opposti in così poco tempo e ne eravamo a tratti spaventati.



Lasciammo alle nostre spalle quel folto gruppo e proseguimmo fino alla Pagoda. L’energia spirituale del luogo e la sua quiete ci invitarono a spendere qualche attimo in meditazione. Dopo esserci accomodati con le gambe incrociate davanti ad una maestosa statua dorata del Buddha e svolti i dovuti ringraziamenti al padrone di casa, chiudemmo i nostri occhi per entrare a contatto con la parte più recondita della nostra mente. Passammo venti minuti in rigoroso silenzio per poi guardarci e sorridere. Entrambi, infatti, eravamo riusciti ad eliminare l’inquietudine all’interno dei nostri animi. Il caos, antecedente a quel momento, derivante dalla fretta di giungere a destinazione, lasciò spazio alla serenità del viaggio: per la prima volta, all’unisono, i nostri pensieri si concentrarono sul dove fossimo, più che sul dove saremmo dovuti arrivare. Ci godemmo l’attimo, come se il tempo attorno a noi si fosse d’improvviso fermato.



Assaporammo ogni istante del meraviglioso tramonto che stava illuminando di un rosso acceso, tendente quasi al violaceo, i nostri volti e le pianure circostanti. I riflessi sull’acqua sembravano sdoppiare l’astro vitale, quasi come se dal terreno stesse nascendo un nuovo sole. Fu allora che con serenità e gioia presi coraggio e dissi al mio compagno di viaggio di voler scrivere un libro su questi luoghi e sulle emozioni che stavamo condividendo. Non ero più preoccupato di essere giudicato, né di ricevere una osservazione negativo:, dopo quel momento meditativo sapevo che avrei comunque continuato con la mia idea, a prescindere da cosa mi avrebbero potuto dire le persone attorno. I colori di quel tramonto illuminarono il sorriso di Mirko, come se già sapesse cosa volessi dirgli. Il suo sguardo sereno e felice mi convinse che fosse la strada giusta da proseguire, ancor prima di una conferma vocale. Mi sentii baciato dalla Terra e dalla sua luce, un altro segnale di quello strano linguaggio del nostro Universo che ho tanto faticato ad imparare. ‘’ Sono convinto sia la cosa giusta’’ mi disse. Quelle parole echeggiarono nella mia mente e rinvigorirono ancora di più la mia fiducia. Ci godemmo in silenzio gli ultimi attimi di quel caloroso tramonto e ringraziai tacitamente l’anima così palpabile di quel luogo. Salimmo in sella alle nostre moto e ripartimmo. C’erano ancora tanti luoghi da scoprire ed altrettanti attimi da assaporare e noi non potevamo farli attendere.



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