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CAPITOLO 1.1

L'atterraggio ad Hanoi e’ stato solo l’inizio del nostro viaggio, ma non l’inizio di quella che sarebbe diventata la nostra vita. Questo primo capitolo, come anche il secondo, verterà soprattutto su una vacanza che in pochi giorni si è trasformata in scelta di vita.


Al nostro arrivo, il caos regnava sovrano in città: il tifone Yagi aveva spazzato via case, sradicato alberi, il grande Fiume Rosso che attraversa la città era straripato, il Paese era in balia della peggior tempesta degli ultimi trent'anni. Era come vivere in un mondo parallelo rispetto alla realtà cui eravamo abituati e che avevamo lasciato da poche ore. Sembrava fossimo atterrati in un altro pianeta: era come se il nostro HAL, come in quel premiato e meraviglioso film del 1968 "2001: Odissea nello spazio", avesse deciso di controvertire gli ordini sociali e dirottarci in un mondo a noi poco comprensibile. Contrariamente al film, però, qui HAL non é un robot volto all’inversione del legame uomo-macchina, ma è un qualcosa che lavora sulle consuetudini sociali capovolgendo quelle cui eravamo abituati e a cui in quel momento, quel luogo stava disobbedendo, invertendo l'ordine di pensieri e sensazioni, e non solo relativamente alla natura, così diversa dalla nostra, ma anche rispetto alle persone. Rimanemmo subito sorpresi quando il taxista, con un inglese alquanto stentato, ci disse che, per loro, il tifone era una semplice tempesta. 

Pensammo che tali parole fossero solo un pretesto per non spaventare i turisti. Invece, sin dai primi momenti vissuti in città, notammo l'abnorme ed illogica differenza nel percepire i disastri tra il mondo occidentale e la società vietnamita; non era una questione di abitudine, nè di forza: era la consapevolezza del fatto che la natura non può essere controllata. La forza inesauribile di queste persone ci si é palesata nel momento in cui notammo la tranquillità con cui essi trascorrevano il tempo, ore, giorni, settimane a sistemare la città dopo la violenza di Yagi. Nella cultura Occidentale, dopo ogni grande tragedia si scatenano le polemiche di tutti contro tutti e gli animi si riempiono di rabbia. Gli esempi che mi sorgono spontanei sono molteplici e qui ne cito un paio: i terremoti di Amatrice del 2016 e quello dell’Aquila del 2009. 

Qui, invece, chi non era stato toccato dal tifone ha chiuso negozi e locali per aiutare a rimettere in sesto un Paese in ginocchio. Con il solito sorriso e una grande forza d'animo, si sono rimboccati le maniche e senza sosta nè accenno di fatica hanno risistemato ogni cosa in pochissimo tempo.



Hanoi è caotica e luminosa: le luci e gli odori impregnano l'aria di una magia quasi alchemica e l'oro delle antiche Chúa risplende come una cornice preziosa fa risaltare i colori di un quadro. Le persone, però, non sono affatto di contorno. Passeggiando per le strade ci rendiamo conto del frastuono costituito dalle voci: il vociare delle persone che tra di loro condividono pasti, attimi e sorrisi si alterna al frastuono dei clacson. Anche i clacson, qui, hanno un valore differente . Non capita mai di sentire un "vaffanculo" seguito da una strombazzata, sono solo degli avvertitori di posizione: il suono del clacson serve a dire a tutti "io sono qui, prestate attenzione". Difatti, nonostante il traffico frenetico, notiamo che gli incidenti sono una grande rarità e, quando accadono, non vengono messe in atto richieste di pagamento danni tramite boriose assicurazioni. Un sorriso, un aiuto a rialzarsi se si finisce per terra, sono sufficienti a creare la costatazione più amichevole che esista. 


Anche l'arrivo al nostro primo alloggio ci ha fatto percepire la fiducia che queste persone ripongono negli altri. Nessun pagamento, nessuna richiesta di denaro, solo sorrisi e calore umano ci hanno accolto in quello squallido albergo nel centro di Hanoi, alla cui base c'era un centro massaggi e dislocate nei piani superiori le stanze per gli ospiti. La nostra ottusa mentalità occidentale, ci ha portato a pensare si fossero dimenticati del pagamento ma così non era: avevano semplicemente riposto fiducia in noi, non in quanto turisti, ma come esseri umani. La genuinità del loro atteggiamento era disarmante e non deve essere confusa con ingenuità. L'anagramma dei termini genuini ed ingenui è una mera illusione linguistica in questo Paese. Il denaro viene posto in secondo piano, considerato un mezzo, non più un fine. È qualcosa che, dal nostro punto di vista, in prima battuta, non è comprensibile. Lo abbiamo compreso appieno dopo un paio di giorni.


I rumori, gli odori, le luci di Hanoi confondono i nostri sensi e , sin dal primo giorno, decidiamo di disattivare le mappe per camminare senza meta, per osservare i luoghi e le persone, per catturare gli sguardi e i sorrisi che con gli occhi incollati al cellulare non avremmo guardato. Avremmo camminato per cercare la veridicità di questi luoghi, affamati di incontri e di sorrisi. Non sarebbe stata un’esperienza da turisti ma da viaggiatori. Dopo aver lasciato i nostri zaini in hotel, ci addentrammo nella città. Fu qui che incontrammo Thien in un parco. Era lì, con altri tre ragazzi vietnamiti a giocare a calcio sull’asfalto, con un pallone sfibrato. Da buoni italiani, ci avvicinammo per fare qualche scambio con loro e nel giro di pochi minuti, i passaggi divennero una partitella con due transenne al posto delle porte. L'intensità della partita era alta, giocavamo come fosse la finale di Champions League, non curanti delle vesciche e del fatto che avessimo davanti a noi ancora 19 giorni di viaggio. Probabilmente non ci rendemmo nemmeno conto del tempo ancora a nostra disposizione perché quella giornata sembrava durasse un'eternità. Eravamo già innamorati di quei luoghi ed il modo di comunicare tra noi e le persone era romantico: Thien e i suoi amici parlavano un inglese essenziale, quindi riempimmo a gesti e sorrisi almeno un'ora e mezza del nostro tempo. A fine partita, ognuno di quei ragazzi ci abbracciò come fossimo fratelli e Thien prese coraggio al fine di chiederci: "See you tomorrow at 5 pm?". Il nostro cuore si riempí di gioia nel sentire quelle parole e confermammo l'appuntamento per il giorno successivo, come quando si era bambini e per incontrarsi non era necessario un messaggio su WhatsApp, non serviva un cellulare per ritrovarsi all’oratorio dopo la scuola ma la fiducia di una parola data. Mi sembrò di essere tornato a casa, la mia Gerola, in cui da piccoli mancare un appuntamento tra amici era il più grande tra i dolori.

 


Lasciata alle spalle la partitella, decidemmo di proseguire per la nostra strada. Spesso la strada giusta non è quella che gli occhi tracciano, è quella dettata dall’anima, ma noi non eravamo ancora in grado di capirlo. Ci imbattemmo così in una via affollata, che definire via è erroneo. Si trattava di una ferrovia, un binario che correva al centro della città, ai cui lati vi erano dei locali. Decidemmo quindi di fermarci in uno di essi, in quanto ci invitarono ad entrare alcuni ragazzi, che fumavano uno strano cilum, molto lungo. Bevemmo due birre e aspettammo il passaggio del treno, che arrivò puntuale, nonostante l'incessante pioggia. Riuscimmo, sempre a gesti, a comunicare con questi ragazzi e ci invitarono a giocare a braccio di ferro con loro. Fu allora che compresi l'incredibile forza nelle loro braccia, in quanto persi subito contro uno di loro che sarà pesato 20 kg in meno di me. I miei allenamenti in palestra non servirono a niente contro la forza di un lavoratore, un ragazzo che tutte le mattine al sorgere del sole va a lavorare per strada, con i suoi fratelli e la madre. Sorpreso dalla loro forza, i ragazzi risero del nostro stupore e continuarono a sfidarci, finché la madre li rimproverò in quanto ormai erano le 9 e dovevano chiudere il locale. Amareggiati ed un po' in imbarazzo per doverci cacciare dal loro locale, decisero di offrirci due birre, per scusarsi del disagio. Noi, ancora vincolati alla nostra concezione occidentale, gioimmo per quelle birre gratis, senza ancora essere consapevoli del regalo più grande che essi ci stavano facendo: la gentilezza. Notammo sin da subito anche un'altra cosa: i locali delle attività commerciali da loro gestite erano vere e proprie case in cui loro vivevano con la famiglia. In Vietnam, sia per stacanovismo, sia per cultura, i ristoranti sono sempre a conduzione familiare, così come i negozi. A loro non interessa possedere il locale più bello, il più attivo, bensì racimolare i soldi per arrivare al pasto successivo. Fu la prima volta in cui io e Mirko iniziammo a parlare della diversità nei desideri di quelle persone rispetto a casa nostra. Essi non hanno la tendenza al possesso, non conoscono invidia: vivono.



Andammo via dal locale e stabilimmo che quella sera avremmo preso una colossale sbronza. Incontrammo dei nostri amici italiani e passammo una bella serata tutti insieme. Quando andarono via e restammo soli, la serata prese una svolta particolare. Dopo aver girato e contaminato con la nostra euforia da baristi tutti i locali dell'Old Town di Hanoi, scorgemmo tra la battente pioggia la scritta "tattoo" sul muro di un vecchio palazzo. Anche in quel caso, non furono necessarie né parole né gesti per decidere di entrare nel negozio. I ragazzi, pur essendo le 4 di notte, ci tatuarono raccontandoci un po' il mondo dei tatuaggi orientali e noi, al fine di tirare il prezzo, ci spacciammo per tatuatori occidentali in vacanza, una pessima bugia, certo, ma che deve averli divertiti, in quanto ci fecero un bello sconto. Stanchi, ubriachi e tatuati, scendemmo le scale del palazzo convinti di tornare a casa. Invece, ai piedi della struttura dove sorgeva il negozio di tatuaggi, vi erano seduti ad un tavolo 5 ragazzi che bevevano un intruglio verde. Ci accolsero come divinità ed accettammo di buon grado di sederci al loro tavolo e condividere una bevuta. Ormai i timori di una possibile dissenteria erano stati cancellati dai fumi dell'alcool. Condividemmo con loro due ore di poco e pessimo inglese ma i loro occhi erano come ammaliati dai nostri racconti di casa. Comunicammo in modo gestuale, più che parlando, cosa che noi italiani siamo molto bravi a fare. Quando si decise di lasciarli, ci invitarono a trascorrere un po’ di tempo nel loro locale,il giorno successivo. Tornammo così in albergo, per un po' di meritato riposo.


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